I Social Network e la libertà di espressione

Dopo la sospensione dell’account di Donald Trump decisa dalle principali piattaforme social: Facebook e Twitter, molti commentatori italiani e non, hanno etichettato questa decisione come “censura”, aprendo un dibattito che ha coinvolto giornalisti, politici, politologi e molti esperti del web.

Come facile intuire, non si è trovata una sintesi, essendo la libertà di espressione un tema dai confini sfumati e soprattutto perché la discussione, tenutasi per lo più proprio sulle piattaforme social, ha dimostrato ancora una volta come tali mezzi di comunicazione favoriscano più a contrapposizione tra slogan di segno opposto, che non la costruzione di uno scambio rispettoso e costruttivo.

Vale la pena fare alcune brevi riflessioni su quanto accaduto, senza entrare nel merito del motivo scatenante:

1 – I Social Network sono piattaforme di comunicazione gestite da società private a cui ci si iscrive liberamente sottoscrivendo termini e condizioni d’uso. Chi viola tali condizioni può essere bloccato a discrezione dei gestori delle piattaforme. Questo vale per chiunque scelga di utilizzare il servizio offerto, peraltro a titolo gratuito

2 – i Social Network non son Internet: chiunque in qualsiasi momento può aprire un suo sito o blog o anche una piattaforma social e rendere pubbliche le proprie opinioni attraverso la rete.

3 – Esistono centinaia di fonti di informazione al di là dei Social: quotidiani, periodici, telegiornali, radiogiornali, programmi di approfondimento, libri…

4 – sui Social Network esistono – e prosperano –  decine di profili falsi e chat bot che sono creati per “ingannare” gli algoritmi e moltiplicare il consenso o creare dissenso attorno a un determinato personaggio pubblico

Dire quindi che la chiusura del profilo personale di Donald Trump è una minaccia alla libertà di espressione non ha senso. In primo luogo è stato bloccato l’account personale di Trump, mentre @potus, l’account istituzionale creato su Twitter per il Presidente degli USA, non è mai stato bloccato.

Qualcuno ha perfino scritto che il fatto che tutti i media tradizionali utilizzano i social come prima fonte per raccogliere le dichiarazioni dei politici, basta a dimostrare che non possono essere considerati club privati, ma società con responsabilità pubbliche.

Anche in questo caso è evidente la fallacia logica: il fatto che molte testate si limitino a riprendere i tweet dei politici è solo la dimostrazione che l’informazione, politica e non, viaggia a livello superficiale basandosi su frasi fatte e necessariamente brevi che non permettono alcun tipo di approfondimento. Dimostra inoltre, a corollario, che se la stampa si limita a riprendere i tweet commentandoli, è perfettamente inutile comprare un quotidiano, perché le stesse informazioni si trovano gratuitamente su Twitter.

Dichiarare che il pericolo per la democrazia derivi dalle decisioni prese dai titolari delle piattaforme social è un’affermazione che molto spiega sul significato che si dà oggi al concetto di democrazia e sull’incapacità di comprendere a fondo i meccanismi di diffusione e condivisione delle notizie sui social stessi. Gli algoritmi alla base del funzionamento dei social, creano dei cortocircuiti pericolosi per l’informazione, amplificando in maniera abnorme messaggi che per loro natura possono essere pericolosi per la società. Per questo negli ultimi anni i titolari delle piattaforme hanno creato dei team sempre più vasti di persone – vere –  per evidenziare e segnalare eventuali criticità.

Nel caso specifico di Trump, da anni si chiedeva alle piattaforme di intervenire, ma essendo lui il Presidente degli USA, per diverse motivazioni facilmente intuibili, i titolari dei principali Social Network hanno sempre traccheggiato, arrivando ad una decisione drastica solo nel momento in cui sono stati certi che la figura in questione non ricopriva più quel ruolo. Opportunismo? Beh difficile dimostrare il contrario, ma non per questo oggi si può parlare di censura.

Il tema sulla libertà di espressione rimane aperto, come è sempre stato, ma è insidioso utilizzarlo strumentalmente per dimostrare le proprie tesi.

Ciò che occorre davvero, a mio modesto parere, è una maggiore cultura della comunicazione, che permetta a ciascuno di distinguere i contenuti dei messaggi dalle giravolte retoriche che spesso confondono e che aiuti ognuno ad essere consapevole del valore di ciò che viene detto o scritto così come del valore del silenzio, perché la libertà di parola, cosi come ogni forma di libertà, comporta necessariamente l’assunzione della piena responsabilità delle proprie azioni.

Su questo tema ho trovato particolarmente utili le riflessioni di Francesco Costa, vicedirettore de Il Post, e Carlo Blengino, avvocato esperto di tecnologia.

Potete trovarle ai seguenti link:

Cosa bisogna pensare della decisione di Twitter?

Il paradosso dei social